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La tutela dell’appaltatore in caso di applicazione di penali per ritardo

Pubblicato il 15 Gennaio 2024

da: Stefano Santori

D: Cosa sono le penali da ritardo, come si applicano e quali strumenti di tutela sono previsti in favore dell’appaltatore?

R. Si sente spesso parlare di “penali da ritardo”, cerchiamo dunque di spiegare brevemente in cosa consistano e quali siano gli strumenti che l’appaltatore può utilizzare nel caso venga applicata una penale considerata illegittima.

Partiamo col dire che quando parliamo di penali facciamo riferimento alla c.d. clausola penale (art. 1382 c.c.), la quale consiste in una quantificazione, convenzionale, preventiva e forfettaria del danno subito per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione.

Ciò premesso, l’art. 126 del d.lgs. 36/2023 prevede al primo comma che “I contratti di appalto prevedono penali per il ritardo nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte dell’appaltatore commisurate ai giorni di ritardo e proporzionali rispetto all’importo del contratto o delle prestazioni contrattuali”. L’articolo prosegue sancendo che “Le penali dovute per il ritardato adempimento sono calcolate in misura giornaliera compresa tra lo 0,3 per mille e l’1 per mille dell’ammontare netto contrattuale, da determinare in relazione all’entità delle conseguenze legate al ritardo, e non possono comunque superare, complessivamente, il 10 per cento di detto ammontare netto contrattuale”.

Dunque, nel caso di ritardo nell’esecuzione dei lavori, per cause imputabili all’appaltatore, il RUP (su indicazione del Direttore dei Lavori, art. 10, co. 5 Allegato II.14) irrogherà penali da ritardo in misura tra lo 0,3 e l’1 per mille dell’importo del contratto.

La disposizione citata prevede, in ogni caso, un limite massimo dell’ammontare delle penali, quantificato nel 10% dell’ammontare netto del contratto.

Ciò detto, qualora il contratto o il capitolato d’appalto non prevedano null’altro rispetto a quanto sopra riportato, possono sorgere contestazioni in ordine alla identificazione di detto “ritardo”, ovvero se sia da ritenere essere produttivo di penali solamente il ritardo rispetto al termine finale di esecuzione dei lavori, ovvero anche semplicemente quello rispetto al cronoprogramma.

Si ritiene preferibile la prima ipotesi in quanto, un ritardo intermedio, ben potrebbe essere “recuperato” con un’accelerazione nella successiva fase di esecuzione dei lavori.

Nella pratica, l’irrogazione della penale avviene mediante una trattenuta sul certificato di pagamento.

Applicata la penale, l’appaltatore che ne voglia contestare le legittimità e fondatezza è tenuto a sottoscrivere “con riserva” l’atto con il quale la penale è stata irrogata, esplicitando le ragioni della contestazione.

Qualora le contestazioni non fossero accolte, l’appaltatore dovrà adire il Tribunale Civile chiedendo la disapplicazione della penale.

È importante sottolineare che, al fine dell’accoglimento della richiesta di disapplicazione in sede giudiziale, l’appaltatore sarà tenuto a giustificare le ragioni per le quali il ritardo contestato non gli sia imputabile. Dunque, già dal momento in cui l’appaltatore contesterà la penale, dovrà preoccuparsi di reperire e collezionare tutta la documentazione utile a dimostrare le circostanze che hanno determinato l’impossibilità – non imputabile – di rispettare i termini contrattuali di esecuzione dei lavori.

Il legislatore attribuisce alla stazione appaltante un particolare potere di disporre, autonomamente e autoritativamente, la risoluzione del contratto d’appalto. In particolare, per quel che interessa in questa sede, facciamo riferimento a quanto previsto dall’art. 122, comma 3, ovvero la possibilità per la stazione appaltante di adottare un provvedimento di risoluzione allorchè ricorra un “grave inadempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dell’appaltatore, tale da compromettere la buona riuscita delle prestazioni”.

Nel esercitare tale potere o facoltà, la stazione appaltante è tenuta ad osservare la procedimentalizzazione prevista dall’art. 10 dell’Allegato 14.II., sostanzialmente caratterizzata da una prima fase di contestazione degli addebiti da parte del Direttore dei Lavori, con assegnazione di un termine non inferiore all’appaltatore per proporre controdeduzioni al RUP. Laddove tali controdeduzioni non fossero valutate positivamente, il RUP dichiarerà il contratto risolto.

Così inquadrata la fattispecie di riferimento, possiamo occuparci di quelli che possono essere gli strumenti di tutela a garanzia dei diritti dell’appaltatore.

Ebbene, laddove le controdeduzioni alle contestazioni di addebito – come sovente, se non sempre accade – siano valutate negativamente dalla committente e, dunque, la stazione appaltante adotti il provvedimento di risoluzione, l’appaltatore non potrà far altro che agire prontamente dinanzi al Tribunale Civile, contestando la legittimità del provvedimento – per vizi procedimentali o di merito – chiedendone la disapplicazione.

Invero, la giurisprudenza ormai consolidatasi in materia, attribuisce la giurisdizione a valutare il provvedimento di risoluzione del contratto non al TAR, bensì al Tribunale Civile, andandosi a sindacare un provvedimento adottato nella fase esecutiva del rapporto contrattuale.

Nel agire processualmente, l’appaltatore potrà chiedere la disapplicazione del provvedimento di risoluzione che ritiene viziato, con onere a proprio carico di dedurre e dimostrare i fatti posti a fondamento delle proprie richieste.

Alla richiesta di disapplicazione del provvedimento può – e deve – essere accompagnata una richiesta risarcitoria, per i danni subiti dalla risoluzione contrattuale.

Altresì, nella pratica quotidiana può ben accadere che, non solo l’appaltatore deduca l’illegittimità del provvedimento di risoluzione, ma anche ritenga che nel corso del rapporto vi siano stati dei comportamenti della stazione appaltante tali da connotarsi in termine di grave inadempimento contrattuale (art. 1455 c.c.). In tali casi, l’appaltatore non si limiterà, dunque, a chiedere la disapplicazione del provvedimento, ma chiederà al Tribunale anche l’emissione di una sentenza costitutiva di risoluzione del contratto per grave inadempimento della stazione appaltante (art. 1453 c.c.). Anche in questo caso, tale richieste può e deve essere accompagnata da una richiesta risarcitoria, per danno da lucro emergente (danni patiti) e lucro cessante (tra gli altri, mancato guadagno dall’esecuzione del contratto e mancato accrescimento della classifica SOA).

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