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La risoluzione del contratto d’appalto nel D.Lgs. 36/2023

Pubblicato il 13 Gennaio 2024

da: Stefano Santori

Indice: 1. La risoluzione del committente – 2. La risoluzione dell’appaltatore

1. La risoluzione del committente

La disciplina dell’istituto è dettata dall’art. 122 d.lgs. 36/2023, il quale prevede (comma 1) che “le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto di appalto senza limiti di tempo” al verificarsi di alcune specifiche condizioni:

  1. modifica sostanziale del contratto, che richiede una nuova procedura di appalto ai sensi dell’articolo 120;
  2. con riferimento alle modificazioni di cui all’articolo 120, comma 1, lettere b) e c), superamento delle soglie di cui al comma 2 del predetto articolo 120 e, con riferimento alle modificazioni di cui all’articolo 120, comma 3, superamento delle soglie di cui al medesimo articolo 120, comma 3, lettere a) e b);
  3. l’aggiudicatario si è trovato, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto, in una delle situazioni di cui all’articolo 94, comma 1, e avrebbe dovuto pertanto essere escluso dalla procedura di gara;
  4. l’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in un procedimento ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.

Accanto a tali ipotesi di risoluzione facoltativa, il comma 2 dell’art. 122 prevede due ipotesi di risoluzione obbligatoria, prescrivendo che: “Le stazioni appaltanti risolvono un contratto di appalto qualora nei confronti dell’appaltatore:

  1. sia intervenuta la decadenza dell’attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci;
  2. sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l’applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui al Capo II del Titolo IV della Parte V del presente Libro”.

Infine, il comma 3 disciplina l’ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’appaltatore, disponendo che “Il contratto di appalto può inoltre essere risolto per grave inadempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dell’appaltatore, tale da compromettere la buona riuscita delle prestazioni”.

Accanto a tale previsione si pone quanto disposto dal successivo comma 4, a norma del quale “qualora, al di fuori di quanto previsto dal comma 3, l’esecuzione delle prestazioni sia ritardata per negligenza dell’appaltatore rispetto alle previsioni del contratto, il direttore dei lavori o il direttore dell’esecuzione, se nominato, gli assegna un termine che, salvo i casi d’urgenza, non può essere inferiore a dieci giorni, entro i quali deve eseguire le prestazioni. Scaduto il termine, e redatto il processo verbale in contraddittorio, qualora l’inadempimento permanga, la stazione appaltante risolve il contratto, con atto scritto comunicato all’appaltatore, fermo restando il pagamento delle penali”.

Dunque, tale norma concerne le ipotesi in cui vi sia ancora spazio per poter adempiere alle obbligazioni contrattuali e la stazione appaltante ne abbia ancora interesse; questa, dunque, assegna un termine entro cui adempiere, scaduto il quale, si attiva il procedimento di risoluzione contrattuale.

Dalla formulazione delle norme sopra richiamate, se ne ricava – in perfetta continuità con tutta la precedente normativa – il potere della committente pubblica di disporre autoritariamente la risoluzione del contratto, diversamente da quel che impone la normativa civilistica – cui, lo si ribadisce, l’appaltatore è soggetto – che impone di rivolgersi all’autorità giudiziaria (Tribunale Civile) deducendo l’altrui grave inadempimento, chiedendo la pronuncia di una sentenza costitutiva o di accertamento, a seconda delle diverse ipotesi, di risoluzione del contratto.

Evidente, pertanto, è la posizione di soggezione cui l’appaltatore è soggetto nei confronti della stazione appaltante, la quale potrà risolvere il vincolo contrattuale senza bisogno dell’intervento giurisdizionale.

A fronte di tale potere attribuito all’Amministrazione, è prevista – quale “contrappeso” – una particolare procedimentalizzazione della risoluzione contrattuale, il cui rispetto si appalesa essenziale al fine di garantire la tutela dei diritti dell’appaltatore. La disciplina è contenuta nell’Allegato II.14.

In particolare, ricorrendo le ipotesi di risoluzione, a norma dell’art. 10 dell’Allegato 14.II il Direttore dei Lavori è chiamato a inviare “al RUP una relazione particolareggiata, corredata dei documenti necessari, indicando la stima dei lavori eseguiti regolarmente, il cui importo può essere riconosciuto all’appaltatore” (co. 1).

Sulla scorta di tale relazione, lo stesso direttore dei lavori formula “la contestazione degli addebiti all’appaltatore, assegnando a quest’ultimo un termine non inferiore a quindici giorni per la presentazione delle sue controdeduzioni al RUP” (co. 2).

Dunque, vi è una prima fase, c.d. di avvio del procedimento di risoluzione, consistente in una formulazione di addebiti da parte della committente per il tramite del D.L., addebiti cui l’appaltatore è tenuto a controdedurre nel termine di 15 gg.

Qualora tali controdeduzioni non siano valutate positivamente, oppure l’appaltatore non le produca – “la stazione appaltante su proposta del RUP dichiara risolto il contratto” (co. 3).

Comunicata la risoluzione del contratto, nei 20 gg. successivi il D.L. dovrà curare “la redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti, l’inventario di materiali, macchine e mezzi d’opera e la relativa presa in consegna” (co. 4)

Tale previsione si lega con quanto disposto dall’art. 122, co. 5, a norma del quale “In tutti i casi di risoluzione del contratto l’appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti”.

Redatto lo stato di consistenza, il comma 8 dell’art. 122 impone all’appaltatore di provvedere “al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze nel termine assegnato dalla stazione appaltante; in caso di mancato rispetto del termine, la stazione appaltante provvede d’ufficio addebitando all’appaltatore i relativi oneri e spese”.

Ovviamente, la risoluzione del contratto porta con sé anche oneri economici a carico dell’appaltatore. Prevede, infatti, il comma 6 dell’art. 122 che “nei casi di risoluzione del contratto di cui ai commi 1, lettere c) e d), 2, 3 e 4, le somme di cui al comma 5 sono decurtate degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto, e in sede di liquidazione finale dei lavori, servizi o forniture riferita all’appalto risolto, l’onere da porre a carico dell’appaltatore è determinato anche in relazione alla maggiore spesa sostenuta per il nuovo affidamento, se la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà prevista dall’articolo 124, comma 2, primo periodo”.

Abbiamo visto, dunque, che il legislatore attribuisce alla stazione appaltante il potere di risolvere il contratto – al ricorrere di specifiche ipotesi – autoritativamente, senza necessità dell’intervento dell’autorità giudiziaria.

L’appaltatore si trova, dunque, in un’evidente posizione di subalternità, a fronte della quale l’unico rimedio esperibile nei confronti della risoluzione contrattuale subita sarà l’attivazione di un giudizio di cognizione dinanzi al Tribunale Civile volto a contestare la legittimità dell’operato dell’Amministrazione, chiedendo la disapplicazione del provvedimento di risoluzione.

2. La risoluzione dell’appaltatore.

Sebbene il Codice dei Contratti Pubblici non disciplini la risoluzione del contratto per inadempimento del committente, ciò non significa che l’appaltatore non possa esperire un tale rimedio. Tale mancata previsione normativa ha, quale unica – seppure non da poco – conseguenza la soggezione dell’appaltatore alle regole ordinarie dettate dal Codice Civile, ovvero agli artt. 1453 c.c. e seguenti.

In particolare, il citato articolo 1453 c.c. prevede che “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.

Dunque, in caso di inadempimento alle obbligazioni contrattuali, la controparte può domandare (giudizialmente si intende) l’adempimento o la risoluzione del contratto; se chiesto l’adempimento può poi chiedersi la risoluzione, non può farsi il contrario, ovvero domandata la risoluzione del contratto non potrà poi chiedersi l’adempimento delle obbligazioni.

L’art. 1543 c.c. va letto in combinato con l’art. 1455 c.c., secondo il quale “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento elle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”. Tale norma, dunque, sancisce il principio della gravità dell’inadempimento, quale presupposto necessario per la risoluzione del contratto.

Al ricorrere di un’ipotesi di grave inadempimento della committente, dunque, l’appaltatore non potrà disporre automaticamente e unilateralmente lo scioglimento del vincolo contrattuale, bensì dovrà rivolgersi al Tribunale Civile chiedendo una pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto d’appalto.

Parallelamente a tale previsione di risoluzione giudiziale, vi un’ulteriore ipotesi prevista dall’art. 1454 c.c., a norma del quale può essere intimato alla parte inadempiente l’adempimento delle obbligazioni entro un termine congruo – di norma 15 gg. (co. 2) – dichiarando espressamente che, in caso di inutile decorso, il contratto s’intenderà risolto.

Seppure il terzo comma affermi che “decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto”, in caso di contestazioni della controparte, è in ogni caso necessario il ricorso all’autorità giudiziale, volto ad ottenere una sentenza – in questo caso di accertamento – dell’intervenuta risoluzione contrattuale.

La differenza tra le due ipotesi sopra richiamate, dunque, posto che nella pratica entrambe si risolvono in una pronuncia giudiziale, è da individuare nella diversità del termine di produzione degli effetti della risoluzione in quanto, nell’ipotesi di c.d. risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c. questi si produrranno con la sentenza costitutiva di risoluzione contrattuale; nel caso della diffida ad adempiere ex art. 1455 c.c., la sentenza si limiterà ad accertare l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto allo spirare del termine assegnato con l’intimazione, decorrendo da tale momento gli effetti.

Può poi accadere che un contratto d’appalto contenga una clausola risolutiva, ovvero preveda espressamente che al ricorrere di determinati eventi o comportamenti, il contratto si risolva di diritto.

La disciplina è tratta da quanto previsto dall’art. 1456 c.c., rubricato per l’appunto “clausola risolutiva espressa”, a norma del quale, al verificarsi degli eventi specificatamente indicati nella clausola contrattuale, la “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva espressa”.

Preme brevemente osservare che tali clausole, laddove presenti nei contratti d’appalto, siano comunemente previste in favore della stazione appaltante, ovvero contengano un elenco di ipotesi connesse a comportamenti o situazioni riferite all’appaltatore, al verificarsi delle quali il contratto si intende automaticamente risolto.

Si ritiene che tali clausole si pongano al di fuori dell’ambito di operatività dell’art. 122 d.lgs. 36/2023 e, dunque, la stazione appaltante che se ne voglia avvalere non potrà beneficiare del particolare regime di favore dettato dalla disciplina pubblicistica.

Tale notazione pare particolarmente importante in quanto, come già osservato con riguardo alla diffida ad adempiere, pur prevedendosi la risoluzione di diritto, a fronte di contestazioni, si ritiene sia in ogni caso necessario l’intervento dell’autorità giudiziaria – su iniziativa della committente che intende avvalersi della clausola risolutiva – affinché sia emessa una sentenza di accertamento dell’intervenuta risoluzione.

Dunque, in pratica e volendo semplificare, non sarà l’appaltatore che dovrà agire in giudizio contestando la legittimità della risoluzione del contratto ad opera della stazione appaltante – chiedendone la disapplicazione – ma la stessa stazione appaltante a dover incardinare un giudizio civile affinché siano accertati gli effetti prodotti dalla clausola risolutiva espressa.

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