Cons. Stato, Sez. III, n. 4701 del 27.5.2024
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha fornito importanti chiarimenti in ordine all’individuazione della soglia minima normativa di esigibilità della previsione dei criteri ambientali minimi all’interno della legge di gara. Più nello specifico, secondo la ricorrente, la gara sarebbe stata illegittima per violazione della disciplina dei criteri ambientali minimi. Il TAR Campania, pronunciandosi in primo grado, avevo respinto tale censura, osservando che il principio di eterointegrazione avrebbe fatto sì che i CAM, genericamente richiamati nel bando di gara, entrassero a far parte della legge di gara.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, ha innanzitutto messo in rilievo l’importanza della questione, sottolineando come essa determini un antagonismo fra l’esigenza di semplificazione della lex specialis e l’esigenza di effettività dell’operatività dei criteri ambientali minimi nella fase di esecuzione del contratto.
Ciò premesso, per dirimere la questione i giudici di palazzo Spada hanno richiamato l’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, he prescrive espressamente “l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (….)”.
Si tratta di un dato che per i giudici non è formale, ma piuttosto sostanziale, dal momento che le prescrizioni in questione mirano a conformare l’esecuzione della prestazione contrattuale.
Peraltro identica disciplina, osservano i giudici, è contenuta all’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 36/2023, che si pone in relazione di continuità con il carattere c.d. mandatory dei criteri ambientali minimi: anche in considerazione del rilievo che tale processo di successione di norme è stato segnato, medio tempore, dalla riforma del parametro costituzionale rappresentato dagli artt. 9 e 41 della Costituzione.
Orbene, nel caso di specie, i giudici di palazzo Spada concludono per l’illegittimità della procedura di affidamento, affermando che non è possibile richiamare il principio della eterointegrazione del bando ad opera di norme imperative e così confermando la lacuna contenutistica della lex specialis.
A tal fine, il Consiglio ha richiamato la sentenza n. 8773/2022, nella quale si è precisato che “La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è pacifica nel rinvenire la ratio dell’obbligatorietà dei criteri ambientali minimi nell’esigenza di garantire “che la politica nazionale in materia di appalti pubblici verdi sia incisiva non solo nell’obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, ma nell’obiettivo di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, “circolari” e nel diffondere l’occupazione “verde” (così, da ultimo, la sentenza n. 6934/2022). La previsione in parola, e l’istituto da essa disciplinato, contribuiscono dunque a connotare l’evoluzione del contratto d’appalto pubblico da mero strumento di acquisizione di beni e servizi a strumento di politica economica: in particolare, come affermato in dottrina, i cc.dd. green public procurements si connotano per essere un “segmento dell’economia circolare“”.
Sulla base di questi presupposti, ne deriva che il ricorso alla eterointegrazione della legge di gara ad opera dei decreti che disciplinano gli specifici criteri ambientali non è sufficiente a far ritenere rispettato l’art. 34 del d. lgs. n. 50 del 2016.
In secondo luogo, nella sentenza in commento viene affrontato il tema del principio del risultato, utilizzato come argomento per respingere il ricorso in primo grado.
Orbene, ad avviso dei giudici amministrativi, la nozione di risultato “anche alla luce del significato ad essa attribuito dal sopravvenuto d. lgs. n. 36 del 2023, (…) non ha riguardo unicamente alla rapidità e alla economicità, ma anche alla qualità della prestazione”.
Se si considera tale, fondamentale quadro, la “migliore offerta” è dunque quella che presenta le migliori condizioni economiche ma solo a parità di requisiti qualitativi richiesti”.
Ricorda il Consiglio infatti che nell’attuale quadro normativo, soprattutto per effetto delle direttive di seconda e terza generazione, il contratto di appalto non è soltanto un mezzo che consente all’amministrazione di procurarsi beni o di erogare servizi alla collettività, ma uno “strumento a plurimo impiego”, funzionale all’attuazione di politiche pubbliche ulteriori rispetto all’oggetto negoziale immediato: in altre parole, uno strumento di politiche economiche e sociali, con conseguenti ricadute sulla causa del provvedimento di scelta del contraente.